Berlino, Deutsche Oper, “Lohengrin” di Richard Wagner
L’HELDENTENOR TRIONFANTE
Lohengrin è un’opera per natura ambigua che si presta a diverse chiavi di lettura: fiabesca, mitologica, storica, psicanalitica; alla Deutsche Oper, dopo la produzione “romantico-fantasy” di Götz Friedrich del 1990, è in scena un nuovo allestimento curato dal giovane regista danese Kasper Holten (direttore uscente dell’Opera di Copenhagen e presto alla guida del Covent Garden) con scene e costumi di Steffen Aarfing.
Durante il preludio vediamo nella scena inclinata l’immagine di un massacro: corpi di soldati che giacciono a terra morti o gravemente feriti, dolenti figure femminili che cercano fra i cadaveri i congiunti. L’impostazione registica è cupa e notturna, volta a sottolineare il dramma della guerra e della lacerazione con crudele realismo e anche l’introduzione orchestrale che dovrebbe introdurre il tema della discesa salvifica di Lohengrin sulla terra è qui concepito come un requiem inesorabile.
Anche se si ravvisano tocchi medievali nelle architetture di pietra ruvida che delimitano la scena nei toni del grigio e del marrone, il clima è atemporale, un non-tempo in cui storia e contemporaneità si confondono, come suggeriscono i costumi dei soldati che rimandano a epoche e guerre diverse, ribadendo come il succedersi di guerre e conflitti abbia un peso nella memoria.
Si respira un senso di tragedia e di Lohengrin viene sottolineato, più che l’aspetto fiabesco, l’ambiguità politica, la manipolazione e un nazionalismo così evidente da risultare per certi versi imbarazzante.
Una sagoma disegnata sul pavimento col gesso bianco allude a Gottfried, il grande assente, e contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più noir: è stato commesso un delitto, s’intuisce il movente.
Lohengrin appare come un angelo dalle smisurate ali bianche piumate che si materializza fra nuvole di fumo e proiezioni che accennano le forme stilizzate di un cigno, unica concessione al soprannaturale di cui si sottolinea una teatralità un po’ kitsch. Lohengrin sfrutta il potere delle ali (che mette e toglie all’occorrenza come fosse una maschera) e della seduzione del canto per dare di sé una rappresentazione tendente al divino, si fa cigno per sembrare ancora più puro e ottenere consenso. Secondo Holten infatti, Lohengrin, più che un eroe, è un abile politico che sfrutta l’opportunità datagli da Elsa e il carisma con cui seduce le masse per perseguire il proprio fine (significativa la scena in cui quando rivela la propria identità la folla gli si stringe intorno per poterlo toccare come fosse un santone con Elsa ai margini della scena in preda alla solitudine e al disinganno), un manipolatore come Ortrud, anche se su piani diversi, che vuole con un colpo di stato stabilire un ordine nuovo.
Nel secondo atto una piattaforma a croce inclinata divide la scena in due livelli separando il mondo infernale di Ortud e Telramund e i loro intrighi sotterranei simboleggiati da funi di led verdi, da quello smaccatamente celeste di Elsa e Lohengrin, la piattaforma si abbassa e diventa la passatoia nuziale che conduce a un sipario incorniciato da una cornice dorata (le nozze viste come finzione teatrale) che si scosta per mostrare una facciata gotica inclinata in prospettiva.
Prima di entrare in chiesa Elsa torna indietro per prendere il bouquet, quanto basta per incrociare lo sguardo di Ortrud, che ripassa con inquietante meticolosità la sagoma di Gottfried col gesso.
Un brivido che nega ogni gioia nuziale lasciando presagire solo morte e sventura, il letto coperto da un velo bianco è una bara per Elsa che porterà fra le braccia la salma di Gottfried avvolta in un lenzuolo insanguinato e un pulpito per Lohengrin che alato e trionfante rimarrà forse nel Brabante non come sposo, ma come re.
Klaus Florian Vogt è in Germania l’Heldentenor del momento per meriti vocali, un’indiscutibile presenza scenica (fisico atletico, lunghi capelli biondi, penetranti occhi azzurri) e atteggiamenti “atipici” per un cantante d’opera: pratica sport estremi, vive in camper e guida l’aereo, il tipo giusto per ruoli eroici insomma. E come un eroe salvifico è giunto a Berlino, a poche ore dalla prima in sostituzione di un collega malato, nel ruolo che l’ha consacrato l’anno scorso a Bayreuth. La voce chiarissima, quasi cristallina, sorprende e affascina e si rimane letteralmente rapiti dal timbro di lucentezza celestiale e un’emissione perfetta che non conosce sforzo. Una voce giovane, quasi insolente per la sicurezza con cui risolve i passaggi più scomodi, ma dolcissima,dai pianissimi di perturbante bellezza. Semplicemente prodigioso, vorremmo riascoltare tutto di nuovo.
Ricarda Merbeth trasmette a livello scenico l’evoluzione di Elsa da ingenua fanciulla (non a caso inizialmente con gli occhi bendati) ad adulta consapevole, ma nel confronto con il protagonista la voce risulta appannata e gli acuti sono un po’ tirati. Meglio l’Ortrud decisamente drammatica di Petra Lang, che, nonostante qualche problema nei passaggi, scolpisce un personaggio affascinante dal fraseggio mobile ed incisivo. Bene anche Gordon Hawkin, un Friedrich von Telramund potente e malvagio. Albert Dohmen è un Heinrich der Vogler dolente e il canto è ricco di increspature malinconiche. Squillante e preciso l’araldo di Bastiaan Everink. I quattro nobili brabantini sono nell’ordine Paul Kaufmann, Matthew Pena, Marko Mimica e Tobias Kehrer.
Ronald Runnicles offre una direzione piena di pathos e vigore, dai tempi incalzanti e veloci, con una lettura che privilegia all’abbandono estatico tensione serrata e forte potenza narrativa.
In sintonia con l’impostazione registica, grande rilievo hanno le scene di massa e di forte impatto è l’ottimo coro diretto da William Spaulding, estremamente puntuale anche dal punto di vista scenico.
Calorosi applausi per tutti alla fine.
Visto a Berlino, Deutsche Oper, il 25/04/2012
Ilaria Bellini